"COSA RICORDO DEL TERREMOTO". LA LETTERA DI LUCIA ROSANNA GAMBUZZI OGGI RESIDENTE IN ISRAELE - Indicatore Mirandolese
Dieci anni fa, il terremoto ha cambiato il destino del paese dove sono nata, Mirandola. E anche il mio.
Per chi ha vissuto quel terremoto c’è un prima e un dopo. Ce lo diciamo spesso: è diventato un modo tutto nostro e diverso di misurare il tempo. Ci ridiamo sopra, ma gli unici autorizzati a farlo siamo solo noi. Perché siamo convinti che nessun altro possa capire cos’è stato il terremoto dell’Emilia – che poi dell’Emilia, dai, è il terremoto della Bassa. Perché ci ricordiamo i telegiornali e i curiosi che rallentavano i macchina per fare le foto ai fienili e alle nostre case – quanti morti? quanti sfollati? quanti milioni di perdite nel distretto del parmigiano d’oro e del biomedicale d’acciaio? Mentre noi che c’eravamo in mezzo, intanto, ci facevamo domande diverse. Su tutte una: come è stato possibile? Come è stato possibile che un terremoto di una magnitudo tale sorprendesse una zona fino ad allora antisismica e con che intensità ha potuto ridurla così? O in altre parole, perché proprio a noi? Pochi giorni fa, qui a Tel Aviv, accoglievamo una delegazione in terrazza quando abbiamo sentito una sirena anti-aerea. Non è la mia prima volta con le sirene in Israele. Per il Memorial Day, in aprile, suonano per due minuti interi mentre l’intero paese si ferma a commemorare i suoi caduti – e con «si ferma» intendo che si fermano tutti, anche chi sta guidando scende e se ne sta in piedi, guardando fisso davanti a sé. In ufficio ho la fortuna di ricevere spiegazioni su tutto: dalle sirene, alle festività, agli attentati che negli ultimi mesi sono successi intorno a noi. Solo grazie a queste spiegazioni posso cogliere le sfumature in frasi come «le cose brutte succedono ma, sai, noi abbiamo tutti fatto l’esercito quindi siamo pronti a che succedano» o quello di «non ci saranno i fuochi d’artificio nel rispetto dei veterani che soffrono di Sindrome da Stress Post-traumatico», così come posso contestualizzare la leva obbligatoria di 2 anni a 18 anni, i ragazzi che girano col mitra sottobraccio al mercato, perché sono tenuti ad averlo anche nei giorni liberi durante la leva, o intuire i tanti codici non scritti che segnano la vita di chi cresce in Israele, e ai suoi confini. Ma se le sirene suonano cosa dobbiamo fare? Alla mia collega Noya, che ha servito nell’esercito come comandante, chiedo sempre tutto e le chiedo anche questo. «Dobbiamo raggiungere il rifugio più vicino, se c’è, altrimenti dobbiamo allontanarci dalle finestre e andare sotto i muri…come si dice in inglese?»
Portanti. Si dice portanti, Noya, e dovremmo prenderci più di un caffè veloce tra i nostri mille impegni quotidiani perché io possa spiegarti come mai lo so. Perché capisco così bene cosa vuol dire il senso di emergenza e che «il senso di identità ha a che fare con il conflitto e col trauma». Ricordo tutto di quella notte, dieci anni fa. Non ne parlo mai. Ma se ne parlo, ne parlo a lungo. Perché quel minuto e mezzo ha avuto conseguenze lunghissime – lunghe giorni indelebili, subito dopo, che si sono sommati in mesi stranianti a seguire, che poi si sono normalizzati e sono diventati anni, dieci anni.
Per lavoro sento spesso o troppo spesso parlare di impatto, e forse il più triste degli esempi che ho a disposizione per capire cos’è l’impatto sta nella domanda: cosa sarebbe Mirandola oggi se non fosse successo il terremoto? Ma preferisco ricordare e raccontare questa storia da un altro punto di vista, con un altro impatto. Perché alla fine sta tutto in come reagiamo alle cose. Quindi «Cosa mi ricordo del terremoto» o «Le 7 cose che hanno portato valore nella mia vita post-terremoto, anche quando avrei solo voluto tirare delle gran madonne» 1. Tra la prima (20 maggio) e la seconda scossa (29 maggio) sono ospite dei miei zii a Milano e mi ritrovo a un’asta: la facilità con cui mille euro diventano un milione tramite un cenno della mano – fiiiiiga – mi ispira. E decido di osare, perché tanto non ho niente da perdere: pochi mesi dopo con la mia famiglia riusciamo a organizzare un’asta di beneficenza sostenuta da Sotheby’s e raccogliamo i fondi per la ristrutturazione del Castello dei Pico di Mirandola. 2. Nel Luglio di quel 2012 recupero gli esami che non ho dato in maggio, e per quello di Sociolinguistica mi concentro sull’assioma numero 12 di Berruto – «uno dei principali elementi che unisce una comunità è la sua lingua» – dimostrando come i miei coetanei avessero cominciato a usare per la prima volta il dialetto mirandolese (!) per scrivere i loro post sui social (!!) proprio a partire dal terremoto: così mi laureo con la tesi sperimentale «Tgnir Bòta (Tenere botta). Mutamenti linguistici in area terremotata», una tesi non priva di bestemmie, che commuove mio nonno dialettologo e gli fa dimenticare per una mattina l’onta di non essermi laureata in legge come voleva lui.
3. La biblioteca di Mirandola è, decisamente, il posto in cui ho imparato a sognare in grande – dove per grande, a quel tempo, bastava trasferirsi a Bologna in via Zamboni, per dire, mica a Tel Aviv in via Dizengoff. Per questo, quando mi è arrivata la lettera di ringraziamento del Comune per essere stata uno dei volontari che ha contribuito a rimetterla in sesto, spolverando i libri dai calcinacci e sistemandoli nella loro nuova sede, mi sono sentita onorata – e meno in colpa per quelli che avevo rubato. 4. A volte, capisci cos’è una comunità solo quando pensi di averla persa. E allora può diventare un trauma, o il tuo lavoro. Nel mio caso, entrambe. 5. Dopo più di un anno, quando studiavo già a Trento, ho preso familiarità con la PTSD o i disturbi post-traumatici, con quelli dissociativi e soprattutto con la terapia: sono strumenti di cui ho ancora molto da imparare, ma che mi hanno aiutato a semplificarmi la vita a quel tempo – facevo Lettere. 6. Ci sono due nonni che ti invitano a mangiare un po’ di gelato con Lambrusco in casa loro – ignorando le scosse di assestamento perché c’è Sentieri. Ci sono due sfollati che si trovano a condividere un tenda e che oggi sono sposati con tre bambine. Ci sono o quelli che hanno deciso che, tanto ormai che non ho una casa, vado in Australia. Oppure ci sono quelli che si tatuano la parola resilienza. Ci sono persone e persone, nella vita, meglio ricordarselo e scegliere quelle giuste.
7. Quando dici a qualcuno che è un isdito, nella Bassa emiliana, lo insulti: gli stai dando dell’incapace e dello stupido, perché non è svelto. Come mai? Perché isdito è il ramo che nasce dalla proceduta dell’innesto – quando si cerca di fondere due piante diverse in una nuova – e per questo è un ramo che cresce con più difficoltà e quindi più lento. Ecco io mi sento isdita quando mi rendo conto di essere tanto presa da quelle che mi sembrano priorità – le scadenze, le cose da fare, le mie menate, le mie ansie – che mi dimentico la cosa più importante che ho imparato in quei giorni, quella che ha avuto davvero impatto gigante su di me: hai una vita sola.
Una, sola. Non essere isdito.